Roma, 15/05/2024
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Cosa succede in caso di morte nello spazio? Gli effetti sul corpo e i protocolli da seguire

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La morte nello spazio è una eventualità remota ma comunque concreta con cui bisogna fare i conti nelle missioni, ma anche nei viaggi commerciali. Tra cause naturali e incidenti, come si può perdere la vita fuori dall’atmosfera terrestre e come si comportano agenzie e compagnie private nel disgraziato caso

Si narra che Coco Chanel, poco prima di esalare l’ultimo respiro, disse ad una cameriera nella stanza dell’Hotel Ritz dove soggiornava questa frase: “Vedi, è così che si muore”. Il trapasso è qualcosa con cui vogliamo avere a che fare il più tardi possibile, ma a volte ci chiediamo (curiosità è un termine in questo caso inappropriato) in cosa consista l’esperienza di passare a miglior vita. Ma ancora di più, e qui invece la parola curiosità la possiamo sicuramente utilizzare, ci domandiamo di cosa si può morire fuori dalla nostra Terra, e nel caso disgraziato ciò avvenisse, cosa succederebbe?

Morte nello spazio: cosa succede al corpo umano in caso di danneggiamento delle protezioni

Partiamo anzitutto dai risvolti fisiologici, prima di passare a quelli burocratici. Al di là delle cause naturali, fermo restando che comunque chi viaggia nello spazio supera ovviamente delle rigorose forche caudine in termini di test sulla propria salute e tenuta fisica, sappiamo che un corpo umano non sopravviverebbe nello spazio aperto. A differenza dei tardigradi, minuscoli organismi invertebrati presenti su tutto il pianeta e capaci di adattarsi alle condizioni più estreme, anche fuori dalla nostra orbita, un essere umano va incontro a fine certa in caso di danneggiamento serio delle proprie protezioni.

Parliamo di tuta e casco, ovviamente. Si può sopravvivere ad una esposizione accidentale allo spazio aperto, ma solo se la durata è estremamente limitata. Circola la convinzione secondo cui sia necessario svuotare i polmoni e cercare di trattenere il fiato più possibile, per evitare che l’aria formi delle bolle letali per i fluidi interni ed anche nel resto dei tessuti dell’astronauta. Ma questo comporta anche il rischio che l’aria si espanda più rapidamente nei polmoni, rompendoli.

Embolia ed ipossia i rischi principali

Tuttavia, niente esplosioni del corpo (anzi, la temperatura interna resta costante), né congelamento rapido, quanto il rischio, senza protezioni nello spazio aperto, che l’organismo inizi a gonfiarsi. Oltre al deficit di ossigeno, e ai raggi ultravioletti che potrebbero bruciare l’epidermide. Senza poi dimenticare l’esposizione a raggi X e gamma, che provocherebbero danni al nostro DNA. Se si sopravvive, insomma, si rischia di sviluppare forme tumorali.

In buona sostanza, senza le normali protezioni una persona rischia di passare a miglior vita nello spazio per embolia ed ipossia. In quest’ultimo caso, la carenza di ossigeno senza casco condurrebbe ad una sicura perdita di coscienza in una decina di secondi. Fortunatamente, le tute spaziali sono studiate per mantenere costante la pressione, oltre a garantire ossigeno (con bombole dotate di un’autonomia che può sfiorare anche le nove ore) e il giusto calore all’astronauta.

Morte nello spazio: agenzie e compagnie si limitano alla prevenzione

Veniamo quindi agli aspetti riguardanti la gestione di una fatalità nello spazio. Secondo Mike Massimino, astronauta che partecipò nel 2002 e nel 2009 a due missioni dello Space Shuttle (Columbia ed Atlantis), la NASA ha studiato dei protocolli per prevenire eventualità luttuose. Ma al tempo stesso, non spiega esplicitamente cosa fare nel caso di un decesso nello spazio.

Un report della NASA sulla mortalità nelle missioni spaziali ha illustrato i potenziali rischi, nonostante gli elevati standard di sicurezza e gli screening a cui gli astronauti sono sottoposti. Malori, situazioni di emergenza come “incendi, depressurizzazione e rilascio di materiali tossici nella cabina”. E ancora, scariche elettriche, scarsità di cibo e acqua causate da deterioramento o contaminazione.

Come ci si comporta in caso di decesso nello spazio

A livello ufficiale non esiste però un protocollo ben definito di fronte al fatto compiuto. Ciò però non significa che NASA ed altre agenzie internazionali non si adoperino per fronteggiare imprevisti fatali. Nel caso di decesso sulla Stazione Spaziale Internazionale, sarebbe possibile far tornare il corpo sulla Terra. Nela triste eventualità in cui la tuta di un astronauta venisse irreversibilmente danneggiata e la morte sopraggiungesse, la salma verrebbe recuperata dagli altri, per condurlo nel Joint Airlock. Si tratta di un modulo per lo svolgimento di attività extraveicolari: il corpo resterebbe lì conservato, in attesa del rientro sulla superficie terrestre.

Il ritorno sul nostro pianeta è più fattibile quindi con i voli in orbita bassa e le missioni brevi, incluse quelle offerte dalle compagnie private. Più complesso nelle missioni più lunghe, verso ad esempio la Luna se non, in un ipotetico futuro, Marte (secondo i calcoli attuali ci vorrebbero sei mesi solo per il viaggio di andata). In tal caso si crea la necessità di contenere i resti per evitare contaminazioni. La preoccupazione principale, infatti, è garantire la sicurezza dei membri dell’equipaggio sopravvissuti. Oltre, ovviamente, rispettare la dignità di chi è scomparso.

Come riporta Fodors.com, un corpo deceduto non può essere lanciato nello spazio. Questo l’avvertimento di Christopher Newman, professore di diritto e politica spaziale, e Nick Caplan, professore di medicina e riabilitazione aerospaziale, entrambi dalla Northumbria University di New Castle, Inghilterra. Infatti, il rischio è di creare ulteriori detriti spaziali. E non sarebbe praticabile l’eventuale sepoltura (o forse sarebbe più corretto parlare di abbandono sulla superfice) in un altro pianeta. Come afferma anche la NASA, esiste un rischio non sottovalutabile di contaminazione. Ad oggi, insomma, l’unica soluzione possibile è il rientro della salma sulla Terra.

Manca un quadro regolamentare specifico che affronti le questioni legate alla morte nello spazio

Il discorso che abbiamo intrapreso potrebbe sembrare un esercizio di morbosità macabra. Ma in realtà con lo sviluppo dei viaggi commerciali, almeno nelle zone suborbitali, questi sono problemi di cui bisogna tenere conto. I privati ovviamente fissano le proprie regole, e non esiste un quadro regolamentare da parte di organismi nazionali e sovranazionale riguardo diritti e doveri dei turisti spaziali.

In caso di morte, comunque, le compagnie sono sollevate da ogni responsabilità, come da contratti e deroghe firmate da chi entra nella navicella. Negli Stati Uniti, la stessa Federal Aviation Administration, che si occupa anche dei voli spaziali umani, ha dei paletti riguardo la sicurezza di bordo stando ad una moratoria del Congresso americano del 2004, poi prorogata due volte e in scadenza ad ottobre di quest’anno.

Come riporta ancora Fodors.com, la FAA non può certificare la sicurezza per gli esseri umani riguardo veicoli di lancio o di rientro. Le compagnie, a loro volta, ottengono la licenza di trasporto delle persone dopo i test che certificano il corretto funzionamento dei veicolo, dove però non sono presenti occupanti umani. Quello che può fare la FAA è richiedere ai privati che forniscono il servizio di informare chi aderisce al viaggio riguardo i possibili rischi. Il quale a sua volta fornisce il consenso informato.

Esistono anche compagnie assicurative che offrono coperture per i viaggi nello spazio, ma sempre Fodors.com puntualizza che in una eventualità di maggior diffusione dei viaggi spaziali (si stima che il giro d’affari entro il 2030 sarà di 7,9 miliardi di dollari) si rischiano contenziosi legali riguardo la sicurezza. Anche perché non parliamo di astronauti addestrati per anni, ma di turisti che – pur formati ed istruiti ovviamente a quello che dovranno affrontare – non possono vantare la stessa preparazione specifica.

Ad oggi hanno perso la vita nello spazio 18 astronauti

Dalle prime esplorazioni spaziali ad oggi sono 18 gli astronauti che hanno perso la vita nelle missioni. Uno degli ultimi incidenti risale al 2014, avvenuto durante il collaudo della SpaceShip Two di Virgin Galactic. La navicella esplose, uccidendo Mike Alsbury e ferendo Peter Siebold. Quest’ultimo però riuscì a sopravvivere alla detonazione a 16 km di altezza dal suolo, con una manovra sovraumana. Il pilota infatti è riuscito a sganciarsi dal sedile (che non aveva un meccanismo di espulsione), riuscendo a fuoriuscire dalla cabina, evidentemente disintegratasi nel frattempo, e a ritrovarsi in una zona dell’atmosfera a -70 gradi. Siebold ha perso conoscenza, ma a 6.000 metri il suo paracadute si è attivato, consentendo l’arrivo a terra dell’uomo, ferito ma sopravvissuto.

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